Le persone con disabilità possono andare incontro nel posto di lavoro ad azioni di mobbing riconducibili alle loro condizioni di salute. In questo caso, infatti, si tratterebbe di vera e propria discriminazione. Gli effetti sono del tutto simili, ma le azioni da intraprendere sono sostanzialmente diverse.
Il mobbing, secondo la giurisprudenza è «violenza psicologica nell’ambito del rapporto di lavoro caratterizzata da reiterazione e da intento persecutorio, esercitata dal datore di lavoro direttamente, o indirettamente per il tramite di persone terze anche non dipendenti».
I comportamenti che vengono normalmente individuati possono essere molteplici: abusi psicologici, angherie, vessazioni, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, derisione, demansionamento, trasferimento ingiustificato, sanzioni disciplinari pretestuose e infondate, molestie, licenziamento ingiustificato.
Perché tali situazioni si possano configurare come azioni mobbizzanti deve sussistere l’aggressione o persecuzione di carattere psicologico; una frequenza e sistematicità del comportamento illecito; la compressione della capacità lavorativa e dell’autostima della vittima che denuncia; l’insorgere di problemi psicofisici (spesso forme depressive gravi).
Il mobbing è un’azione molto grave che conduce il lavoratore a un periodo di malessere generale, caratterizzato da disturbi depressivi e psicosomatici, tanto da doversi rivolgere spesso alle cure degli specialisti.
Uno degli aspetti centrali del mobbing è la violazione della dignità della persona, e del lavoratore, in quanto persona.
Infatti l’art 2087 c.c. prevede l’obbligo a carico del datore di lavoro di “adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori”. Questa norma è molto importante, perchè sancisce l’obbligo di tutela della salute e della dignità di tutti i prestatori d’opera. Si deve osservare che, in molti casi, le attività di mobbing coinvolgono anche soggetti con contratto a termine. Quindi particolarmente deboli a livello contrattuale.
Inoltre, gli artt. 1175 c.c e 1375 c.c prevedono rispettivamente il rispetto del principio di correttezza e di buona fede contrattuale, valevoli anche nel rapporto di lavoro. Queste sono regole di comportamento fondamentali.
Non esiste ad oggi una normativa specifica, anche se giacciono da anni alcune proposte di legge all’esame del Parlamento italiano.
Nemmeno a livello di Unione Europea esiste ancora una direttiva e questa carenza è stata talora invocata come “scusa” per non procedere speditamente all’approvazione di una norma nazionale che affronti questo delicato problema.
Va tuttavia rammentato che il Parlamento Europeo, già nel 2001, ha approvato la Risoluzione 2001/2339 che richiamava «l’attenzione sugli effetti devastanti del mobbing sulla salute fisica e psichica delle vittime, nonché delle loro famiglie, in quanto essi impongono spesso il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico e conducono generalmente a un congedo per malattia o alle dimissioni» ed esortava gli Stati Membri «a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing».
In effetti alcune Regioni hanno tentato, con proprie disposizioni, di colmare la lacuna data dalla mancanza di una disciplina a livello nazionale.
Nonostante queste carenze, nel nostro ordinamento vi sono una serie di disposizioni specifiche volte alla protezione del lavoratore. Un primo riferimento è, senza dubbio, l’articolo 2103 del Codice Civile che tratta di mutamento di mansioni, di sanzioni disciplinari, di trasferimenti illegittimi, di discriminazione. Ulteriori elementi di tutela si rilevano nel Testo Unico in tema di sicurezza e salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro (Decreto Legislativo 81/2008). Ma, sopra a tutte, vigono le indicazioni formulate dall’articolo 2087 del Codice Civile sopra citato.
Alcuni comportamenti integrano reati penali quando vi è anche violenza sessuale (art. 609, Codice Penale); maltrattamenti (art. 572, Codice Penale); ingiuria (art. 594, Codice Penale) quando vi è offesa dell’onore o del decoro di una persona; diffamazione (art. 595, Codice Penale) quando si offende l’altrui reputazione in assenza della persona offesa; calunnia (art. 368, Codice Penale).
Il lavoratore deve dimostrare il nesso causale tra la condotta persecutoria ed una serie di conseguenze pregiudizievoli a lui occorse, cioè il danno subito.
Il danno che subisce il lavoratore può essere di diversi tipi:
- danno biologico: è la lesione dell’integrità fisica e psichica del soggetto, medicalmente accertabile e risarcibile a prescindere dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato. Trattasi cioè di fattispecie totalmente indipendente dalla capacità produttiva del danneggiato. Nell’ambito del danno biologico rientrano tutte le fattispecie di danno non reddituale, cioè il danno estetico, il danno alla vita di relazione, consistente nel sacrificio delle distinte manifestazioni della vita di relazione dovute all’evento dannoso, nonché il danno alla sfera sessuale e la riduzione della capacità lavorativa generica.
- danno patrimoniale, invece, è quello arrecato dalla lesione alla sfera patrimoniale del danneggiato.
- danno morale è rappresentato dalle sofferenze psichiche, dalle ansie e dal patema d’animo conseguenti alle lesioni subite se siano la conseguenza di un fatto illecito di rilevanza penale e la responsabilità dell’autore materiale del fatto sia provata.
- danno esistenziale è quello derivante dalla forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica.
In numerose sentenze la Cassazione ha precisato che la prova dei comportamenti illegittimi diretti a ledere la sua persona, così come la sussistenza del danno, deve essere fornita dal lavoratore, anche se è ovvio che il reperimento delle varie fonti di prova può risultare spesso particolarmente difficoltoso, ad esempio perchè i colleghi potrebbero non voler testimoniare. Al datore di lavoro spetterà di provare che gli elementi di fatto addotti non costituiscono violazioni dell’obbligo di protezione e che non c’è stata alcuna intenzione di vessare o discriminare il lavoratore.
È consigliabile, sempre, la raccolta di tutti i documenti utili (comunicazioni, ordini di servizio, elenchi di fatti e circostanze dimostrabili), certificazioni mediche dei sintomi psicofisici risultanti dalle azioni mobbizzanti.
E’ consigliabile agire il prima possibile (attraverso consulenza legale e/o perizia medico legale) o comunque prima che l’evento “definitivo” si presenti. E’ fondamentale non farsi trovare impreparati e privi della conoscenza di base (su cosa fare/non fare e quali sono i propri diritti) nel momento in cui l’evento si presenta perché troppo alto sarebbe il rischio di operare in maniera errata peggiorando quindi la propria posizione e al tempo stesso troppo brevi sarebbero i tempi per trovare la giusta formula di intervento.
Se vuoi ricevere assistenza legale per mobbing puoi scrivere a info@uniciv.it